Mussolini si era convinto di aver spostato la maggioranza dei gerarchi dalla sua parte nella notte del Gran Consiglio e per questo aveva acconsentito a far voltare l’ordine del giorno di Dino Grandi che invece l’aveva sfiduciato e costretto a mettersi da parte. Il Duce era rientrato alle 4 del mattino di quella domenica 25 luglio nella sua residenza di Villa Torlonia, dove Rachele l’aveva aspettato sveglia.
Appena visto il marito, accompagnato da Carlo Scorza, aveva saettato: “Li hai fatti almeno arrestare tutti?”. Il giorno prima, mentre Mussolini si stava dirigendo verso la vettura che l’avrebbe condotto a Palazzo Venezia, le sue parole erano state “Falli arrestare tutti, ancora prima di cominciare la riunione”.
Nelle sue memorie racconta che all’ultima esortazione a usare la forza, proprio quella domenica, Mussolini l’aveva rassicurata che l’avrebbe fatto. Poi era andato a dormire, verso le 5, ma alle 9 era già di nuovo al tavolo di lavoro di Palazzo Venezia, come nulla fosse. Sarebbe rientrato in casa attorno alle 15, per un rapido pranzo, prima di uscire di nuovo alle 17 per andare a colloquio con Vittorio Emanuele III e riferirgli a tu per tu cosa era accaduto durante il Gran Consiglio.
Ignora che a Villa Torlonia non sarebbe mai più tornato. La moglie Rachele quel pomeriggio aveva ricevuto ben tre telefonate d’invito al Duce a Villa Savoia, con la raccomandazione di mettersi in borghese. “Non andare, Benito. Ma non capisci? Vogliono che tu non ti metta la divisa per non dare nell’occhio quando ti arresteranno”. Ma Mussolini è convinto che il Re non lo farebbe mai perché “colpirebbe anche l’Italia e se stesso”. L’ultimo avvertimento “Non andare! Non ti lasceranno tornare”, era quindi caduto nel vuoto.
A Vittorio Emanuele bastano poche parole e pochi minuti per liquidare un ventennio: “Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini. II voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra essi quattro Collari dell’Annunziata. Voi non vi illudete certamente sullo stato d’animo degli italiani nei vostri riguardi. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io”.
“Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento. Io vi voglio bene e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo”.
È un licenziamento in piena regola, che verrà addolcito con l’uso della parola “dimissioni”. Ma è soprattutto un colpo di Stato: quello che Vittorio Emanuele vuole per salvare se stesso, il trono e la dinastia; quello che gli ambienti monarchici pretendono per scindere le responsabilità delle istituzioni dal regime; quello che consente ai militari di coprire inettitudini, carrierismi, incapacità, e soprattutto le sconfitte in tre anni di guerra.
Un solo responsabile basta e avanza per l’opinione pubblica, per lavarsi la coscienza e presentarsi davanti agli Alleati chiedendo la fine delle ostilità. Il piano è studiato in ogni dettaglio. C’è la lunga mano del capo della Polizia Carmine Senise, c’è il braccio operativo dei Reali Carabinieri la cui fedeltà ai Savoia è al di sopra di ogni sospetto. Di una sola cosa si è raccomandato il Re: l’arresto deve avvenire fuori da Villa Savoia, per salvare almeno le apparenze, con quel gesto comunque assai poco regale che segue di pochi attimi la stretta di mano e la riaffermazione di un’amicizia che, se mai c’è stata, ora non c’è più.
All’esterno ci sono invece in attesa poliziotti e carabinieri, tutti uomini scelti, e c’è anche un’ambulanza della Croce Rossa. L’autista di Mussolini, Ercole Boratto, che lo attendeva per riportarlo a casa, è stato allontanato dalla sua vettura con una scusa. Alle 17.20 il capitano Paolo Vigneri si affianca al Duce e sfiorandolo appena lo invita a seguirlo. Mussolini ha qualche perplessità e qualche preciso sospetto, ma l’ufficiale gli dice che ha ricevuto consegne precise (l’incarico è stato affidato a lui e al capitano Raffaele Aversa dal generale Cerica attraverso il tenente colonnello Giovanni Frignani) di prenderlo sotto la sua custodia “per la sua stessa sicurezza”.
Il colpo di stato dura un attimo. Mentre l’ambulanza si dirige verso la caserma dei carabinieri, a Roma tutto è tranquillo, come riferisce telefonicamente il comandante della Milizia Enzo Galbiati a una sempre più preoccupata Rachele. Gli italiani non sapranno nulla fino a tarda serata, quando l’Eiar diffonderà questo proclama con la voce di Titta Arista: “Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, il cavaliere, maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio“.
Sono le 22.45. L’Italia che ha ascoltato la radio è percorsa da una scarica elettrica di euforia. Badoglio però gela subito tutte le aspettative e toglie ogni innesco all’esplosione della gioia popolare per una notizia che insinua l’erroneo convincimento che la caduta di Mussolini sia il preludio alla sospirata pace: “La guerra continua. L’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a sua maestà il re imperatore, immagine vivente della patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”.
Sarà purtroppo di parola. Il 25 luglio non è finito tutto. Sta iniziando una pagina drammatica della storia d’Italia.
(articolo di Marco Patricelli / AGI)