GLI ORNAMENTI NELLA DANZA CLASSICA INDIANA

Nell’affrontare la tematica dei significati simbolici delle tradizionali parure di gioielli indossate dalle Devadāsī, le “servitrici degli Dèi” dei Templi dell’India del Sud, avvicineremo in primo luogo le fonti testuali classiche, in particolare i capitoli VI e XXIII del trattato di drammaturgia Nātyaśāstra. In tal senso approfondiremo la complessità dell’arte degli ornamenti teatrali (Āhārya abhinaya) e il canone artistico dei navarasā (nove stati emozionali e coscienziali) del capitolo VI della medesima opera, vero sistema metafisico e filosofico che influenza indubbiamente anche l’arte degli ornamenti con le sue articolate connessioni astrologiche. Nella seconda parte di questo scritto analizzeremo come tali fonti, integrate da alcune nozioni dell’arte alchemica indiana (Rasaśāstra), abbiano ispirato le produzioni di gioielleria per danza tradizionale, mostrandoci un sistema articolato che connette ogni monile alla consolidata nomenclatura dei centri sottili della fisiologia yogica. Tutte le informazioni di questa seconda sezione non hanno un preciso riferimento testuale, ma si rinvengono quale consuetudine condivisa nella prassi delle arti sceniche indiane moderne.

PARTE PRIMA: LE FONTI TESTUALI CLASSICHE

1. Āhārya abhinaya nel Nātyaśāstra

Nella trattatistica classica relativa al teatro-danza indiano il termine sanscrito Āhārya abhinaya, introdotto dall’opera Nātyaśāstra, comprende in modo generico tutte le indicazioni relative all’utilizzo dei costumi, degli ornamenti e del trucco, nonché include anche tutte le indicazioni per l’allestimento della rappresentazione, la preparazione delle scene, le caratteristiche del teatro, ecc.…Il testo dedica l’intero XXIII capitolo a questo aspetto dell’arte drammaturgica, identificandolo con il termine nepathya (नेपथ्य – “costumi e trucco), sottolineando che solo l’apparizione di personaggi visivamente adeguati compirà la rappresentazione – ancor prima che venga eseguita una parola o un’azione – poiché costumi, gioielli e trucco hanno la funzione essenziale di introdurre immediatamente il ruolo interpretato, la situazione, il periodo di tempo ed ogni altro aspetto della comunicazione artistica. Per tale rilevanza, questo aspetto delle arti sceniche è dunque enumerato come uno dei quattro grandi mezzi di comunicazione del teatro (caturvidhā abhinaya). Tale prassi sembra aver raggiunto una notevole articolazione e complessità regionale, stilistica e tipologica già all’epoca della redazione del testo. Solo a titolo di esempio accenniamo brevemente che questo śāstra descrive undici tipi di orecchini da donna, tre per gli uomini ed enumera precisi dettagli decorativi come, ad esempio, che le giovani donne Siddhā (v. 56) debbano indossare abiti gialli, adornati di perle e smeraldi, che i musicisti celesti siano adornati di rubini, abiti color zafferano e uno strumento chiamato vīṇā, e che i demoni siano interamente vestiti di nero. I danzatori celesti sono riconoscibili da i loro ornamenti di perle e lapislazzuli, mentre le consorti degli esseri celesti e delle scimmie dovrebbero essere vestite di blu. In una storia d’amore la donna indossa pochissimi gioielli di colore bianco. Inoltre, la trattazione specifica i quattro colori base per costumi e trucco: bianco, blu, giallo e rosso. Il blu è considerato il colore della potenza e della forza mentre è doveroso, per attori e ballerini, indossare abiti bianchi quando si partecipa a un rituale in un tempio, a un matrimonio o a un giorno di speciale congiunzione tra stelle e pianeti.

È necessario evidenziare che questo trattato non si occupa in modo esplicito dell’oggetto di nostro interesse – dunque la connessione tra i monili utilizzati e l’anatomia yogica – ma detta solo delle norme generali relative alla predisposizione dei costumi e dei gioielli e, nel capitolo VI, sviluppa la connessione tra il canone degli stati emozionali della fruizione artistica (rasa) con precisi aspetti astrologici, correlazione da cui discendono di conseguenza numerose indicazioni circa lo stato emotivo, il colore e la divinità associata, dunque da considerarsi idonea introduzione alla comprensione della complessità del tema degli ornamenti connessi alla fisiologia sottile.

2. Connotazioni astrologiche della teoria del rasa

Da un punto di vista filosofico il teatro è una rappresentazione della realtà in cui uno o più attori vivono delle emozioni (bhāva) che vengono trasmesse allo spettatore (rasa). Il termine sanscrito rasa (lett. “sapore”, “succo”) designa, in tutte le tradizioni artistiche indiane, il piacere estetico e denota una condizione emotiva che riguarda sia l’interprete dell’esecuzione sia lo spettatore medesimo. Secondo il Nātyaśāstra, l’arte del dramma accetta che gli esseri umani siano in diversi stati interiori quando giungono come pubblico e dunque, attraverso l’arte eseguita, viene offerto divertimento a coloro che desiderano piacere, conforto a coloro che sono nel dolore, calma a chi è preoccupato, energia a chi è coraggioso, coraggio al codardo, erotismo a chi cerca compagnia, godimento a chi è ricco, conoscenza a chi è incolto ed infine la saggezza a chi è educato.

Il dramma rappresenta le verità sulla vita e sui mondi e, attraverso le emozioni e le circostanze, offre indubbiamente intrattenimento ma – ancora più importante – ethos, pace e felicità. La funzione dell’arte drammatica è quindi di ripristinare il potenziale umano, accompagnando l’uomo gioiosamente verso un livello superiore di coscienza. L’opera Nātyaśāstra, ci introduce dunque alla nozione del profondo aspetto teatrale della vita, che divenne la caratteristica fondamentale della cultura post-vedica e determinò la comparsa del pensare il mondo come il frutto del gioco divino. Proprio come il gusto del cibo – afferma il trattato – è determinato dalla combinazione di verdure, spezie ed altri elementi quali lo zucchero e il sale, così il pubblico assapora gli stati dominanti di un dramma attraverso l’espressione di parole, gesti e temperamenti: queste inclinazioni emotive sono l’amore, la gioia, la tristezza, la rabbia, il coraggio, il terrore, il disgusto e lo stupore.

I principi espressi nel Nātyaśāstra assumeranno nel tempo una rilevanza ontologica tale che Abhinavagupta (950-1020 d.C.), uno dei massimi pensatori del Subcontinente, sentirà la necessità di dedicarvi un commentario monumentale, Abhinavabhāratī. Questa analisi è notevole per la sua ampia discussione di questioni estetiche e metafisiche e, proprio in merito al rasa, sottolinea la centralità ontologica della percezione del piacere estetico definita rasasvāda (il cosiddetto “sorseggio di succo”,). Per Abhinavagupta, come per Plotino, la Bellezza è l’elemento vivificante dell’Universo e dunque il rasa è capace di rimuovere le fitte nubi che ricoprono la nostra vita, squarciando la quotidianità con il suo potere trasformativo. Colui che gioisce del rasa, lo yogin per eccellenza, viene definito rasika, essere capace di risuonare sensibilmente ed esteticamente, poiché l’uomo religioso si muove nel mondo in maniera estetica. In questo “misticismo estetico” il rasasvāda percepito dallo spettatore si amplifica nel brahmāsvāda dell’uomo religioso: tale assaporamento estetico sarà interpretato dunque come capace di annullare la divisione tra soggetto e oggetto della percezione, anche solo in via transitoria:

Una completa assenza di meravigliarsi è, in effetto, mancanza di vita. Inversamente, la ricettività estetica, l’essere dotato di cuore non è altro se non l’essere immerso in un intenso meravigliarsi, il quale consiste in una scossa della forza. Solo chi ha il cuore tutto alimentato da quest’infinita forza aumentativa, solo chi è consueto alla pratica costante di tali fruizioni, solo egli e non altri è dotato, per eccellenza, di questa capacità di meravigliarsi. E questo meravigliarsi c’è anche nel dolore. L’essenza del dolore non è, in effetto, se non un meravigliarsi particolare, cagionato dall’assenza di ogni speranza.”

La trattatistica classica arriverà a definire Navarasā , ovvero nove tipi di essenza, connessi indissolubilmente all’arte dell’astrologia, poiché questa scienza divina opera principalmente sullo stato mentale o bhāva. Queste associazioni seguono sinteticamente quanto indicato in questa tabella sinottica da noi elaborata, con l’eccezione del nono rasa che fu aggiunto successivamente:

Un nono rasa, shānta rasa (la “pace” o “tranquillità”) fu aggiunto da autori successivi, provocando non pochi dibattiti filosofici tra il sesto e il decimo secolo prima che l’espressione navarasā (i nove rasa) potesse essere definitivamente accolta. Śānta rasa viene associato alla tranquillità quale stato originario dell’essere e, pur appartenendo all’enneade della codificazione dei rasa, ne è allo stesso tempo distinto come la forma più chiara di beatitudine estetica: Abhinavagupta lo paragona al filo interno di una collana di gioielli poiché, dando la forma, consente di gustare le gemme degli altri otto stati coscienziali, assaporamento auspicabile e analogo – anche se mai uguale – alla beatitudine dell’autorealizzazione sperimentata dagli yogin.

PARTE SECONDA: MONILI ED ANATOMIA YOGICA NELLA DANZA CLASSICA INDIANA Bharatanāṭyam

1. L’arte degli ornamenti nella danza Bharatanāṭyam: i monili Vadaserry

In linea generale il XXIII capitolo del Nātyaśāstra elenca quattro tipologie di ornamenti per danzatori e danzatrici:

a) Āvedhya – ornamenti che vengono fissati perforando il corpo, come ad esempio gli orecchini;

b) bandhaniiya – quelli che sono legati intorno agli arti, come cinture e bracciali;

c) praksheepya – ornamenti che vengono indossati, come cavigliere;

d) Āropya – quelli che vengono indossati intorno al corpo, come le collane.

Rispetto a questa complessità straordinaria del Nātyaśāstra, la danza neo classica Bharatanāṭyam permane abbastanza sobria nella scelta degli ornamenti, del costume e del trucco ma, analogamente alle divinità dei templi, il danzatore rispetta il simbolismo religioso connesso ai gioielli, al belletto e alla scelta dei colori. In particolare, per quanto riguarda la tematica della forma dei monili, è possibile in parte ritrovare i modelli di questi preziosi nella statuaria di molti templi dell’India del Sud, come Madurai, Kanchipuram, Tanjore e i bellissimi ornamenti delle apsarā (le ninfe celesti) del Tempio di Belur in Karnataka, poiché i gioielli del tempio prosperarono sotto il patrocinio del dominio Cholas, Pandyaas e Rayars, dal IX secolo fino al XVI secolo.

Si ipotizza che questa forma di gioielleria del tempio, qualificata successivamente come “da danza”, sia ispirata ai monili offerti alle divinità, oppure, di converso, che tali preziosi, realizzati principalmente per i reali, furono successivamente donati ai sacri precinti e alle loro danzatrici. Questi “gioielli del tempio” o “gioielli della danza” sono ancora ampiamente utilizzati dai ballerini degli stili neoclassici di ispirazione templare, sia in India che all’estero.

Da un punto di vista artigianale i gioielli per la danza Bharatanāṭyam sono tradizionalmente in oro o ricoperti d’oro e decorati con pietre preziose o semi-preziose, come rubini e diamanti, contornati da piccole perle bianche. Versioni originali e più antiche dei monili sono infatti visibili nei musei indiani e sono tendenzialmente analoghe alle riproduzioni oggi adottate nelle comuni performance. Le pietre Kemp, di colore rosso o verde (lucide e non tagliate), sono la parte più caratteristica di questi “gioielli del tempio” indossati dalle danzatrici. Sono inseriti in una base d’oro, abbinandole a pietre preziose e semipreziose quali rubini, smeraldi, diamanti e perle e sono incastonate utilizzando una cera naturale chiamata arraku in una lunetta in argento placcata d’oro. La base stessa può essere d’oro puro, d’argento placcato oro o un’imitazione dell’oro. Il nome tradizionale Kemp significa “colore rosso” in alcune lingue indiane (Telugu e Kannada), ma le pietre Kemp, sebbene generalmente rosse, possono anche essere anche verdi o blu. Secondo alcuni esperti gioiellieri il termine veniva genericamente utilizzato quale sinonimo dei rubini, benché fonti orali lo intendessero come “imitazione” o “pietra sintetica”. La squisita arte di realizzare intricati gioielli per le divinità ebbe origine in India durante il periodo Chola, con il suo epicentro nella città di Vadaserry a Nagercoil, Tamil Nadu. Chiamati anche gioielli Vadassery, gli ornamenti sono stati creati con argento puro e foglia d’oro e impreziositi da pietre preziose come rubini, smeraldi, zaffiri e perle, principalmente per adornare le divinità nei templi e per i reali. Gli asaris (orafi e gioiellieri) affinarono la tecnica, utilizzando rubini cabochon (a forma di cuscino) e altre pietre preziose provenienti dalla Birmania, con cui l’India commerciava a quel tempo. La maggior parte dei disegni sono stati ispirati dalla ricca architettura della regione; pilastri, archi e vari motivi parietali venivano spesso replicati nei gioielli con dettagli squisiti, conducendo questa specifica produzione ad essere ampiamente classificata come “del tempio”. Altri motivi dei gioielli Vadassery sono sovente di tipo naturalistico con significati religiosi, quali cigni, pavoni, pappagalli e fiori.

2. Peculiarità e affinità astrologiche e yogiche dei monili. Influenza dei Rasaśāstra (alchimia)

Benché, ad esempio, il teatro-danza del Kerala, così come alcune forme arcaiche del suo omologo Kuchipudi dell’Andhra Pradesh, utilizzino ornamenti e gioielli in fibre naturali (quali cocco, legno di tek, ecc..) ricoperti di foglia d’oro o dipinti, la maggior parte degli stili neo classici di danza del tempio predilige di contro alcuni metalli, coerentemente con le qualità specifiche del genere teatrale. Secondo una consolidata e soventemente ripetuta tradizione orale, il Bharatanāṭyam, stile marziale del Tamil Nadu, tradizionalmente connesso ad Agni e Sûrya, (il fuoco e il sole), ha privilegiato l’oro; di contro la danza Oḍissī, che si reputa espressione dell’elemento dell’acqua e dell’elemento lunare, utilizza l’argento.

(Articolo di Maria Luisa Sales)